COOPERATIVE E REATI SOCIETARI, LE SEZIONI UNITE PENALI FANNO CHIAREZZA SULLA FATTISPECIE DI FALSO IN BILANCIO VALUTATIVO: E’ ANCORA REATO NONOSTANTE LA RECENTE MODIFICA DELL’ART. 2621 C.C.
La sentenza delle Sezioni Unite penali n. 22474, depositata il 27.05.2016, appare come la soluzione interpretativa che dirime ogni dubbio in merito al reato di false comunicazioni sociali ed, in particolare, all’ipotesi del cd. falso valutativo, fattispecie frequente anche nell’ambito delle società cooperative.
Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte a SS.UU., dopo aver ripercorso il contrasto giurisprudenziale formatosi negli ultimi due anni in tema di “falso in bilancio valutativo”, ha concluso nel ritenere ancora tale fattispecie penalmente rilevante.
Gli opposti orientamenti in materia avevano avuto origine a seguito della recente modifica, ad opera della Legge n. 69/2015, dell’art. 2621 c.c. che adesso disciplina il delitto di false comunicazioni sociali nelle società non quotate, di seguito testualmente riportato:
“Fuori dai casi previsti dall’art. 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni.
La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi”.
Ed invero, l’attuale formulazione dell’art. 2621 c.c., oltre a non prevedere più alcuna soglia di punibilità, non contiene altresì l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni”, riferito, nella previgente ipotesi commissiva, ai “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero” consapevolmente esposti in bilancio o, comunque, nelle altre comunicazioni previste dalla legge in favore dei soci o del pubblico. Inoltre, riguardo all’ipotesi omissiva, è ormai fatto espresso riferimento ai soli “fatti materiali rilevanti” e non più alle generiche “informazioni” di cui alla precedente versione della norma.
La fattispecie mantiene la sua connotazione di reato proprio (i soggetti attivi sono tassativamente indicati), nonchè di pericolo concreto (potenzialità della condotta ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sociali) con dolo specifico, rappresentato dalla finalità di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, punibile d’ufficio.
Prima del definitivo intervento delle Sezioni Unite, la stessa V sezione si era già pronunciata in modo difforme sulla rilevanza penale del cd. falso valutativo alla luce della nuova formulazione dell’art. 2621 c.c., dando vita a due indirizzi contrapposti.
La sentenza n. 33774/2015, in tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, affermava, relativamente ai nuovi artt. 2621 e 2622 c.c., il principio della successione di leggi nel tempo con conseguente abrogazione parziale del reato, limitatamente alle condotte di falsa valutazione di dati realmente esistenti (cioè, appunto, il cd falso valutativo).
L’orientamento appena espresso veniva ripreso dalla successiva sentenza n. 6916/2016, anch’essa favorevole all’effetto abrogativo delle succitate modifiche legislative, sempre con riferimento alle condotte sussumibili nella categoria dei soli falsi valutativi e non anche di quelli materiali (quali ad es. i crediti indicati con valore difforme dal reale o descritti come certi anziché come potenziali).
La soppressione del predetto inciso renderebbe, quindi, applicabile la norma incriminatrice alle appostazioni contabili derivanti, comunque, da fatti economici materiali, escludendo quelle prodotte da valutazioni.
Entrambe le sentenze attribuivano primaria importanza al dato testuale della nuova versione dell’art. 2621 c.c., ossia alla scomparsa del riferimento alle “valutazioni”, peraltro mantenuto nell’art. 2638 c.c., che disciplina la diversa fattispecie di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (a dimostrazione della volontà del legislatore di escludere la rilevanza penale delle “valutazioni” nel reato di false comunicazioni sociali). A conferma di ciò vi sarebbe, inoltre, l’aggiunta, nella nuova versione della norma, del requisito della rilevanza dei “fatti materiali” e la già menzionata sostituzione, nell’ipotesi omissiva, della parola “informazioni” con l’espressione “fatti materiali rilevanti”, circostanze anche queste che si porrebbero in contrasto con l’attribuzione di rilevanza penale alle condotte di mera valutazione.
Ad ulteriore riprova della tesi abrogazionista vi sarebbe, infine, il raffronto con la fattispecie della frode fiscale, in cui all’espressione “fatti materiali” era pacificamente riconosciuto l’intento di escludere la rilevanza delle mere valutazioni, stante la possibilità di errori o di interpretazioni opinabili a cui si presta la complessa normativa tributaria.
Con la sentenza n. 890/2015 (collocata temporalmente tra le due già menzionate) la V sezione si pronunciava, invece, in senso contrario all’ipotesi abrogativa, sostenendo che, nonostante la nuova formulazione letterale dell’art. 2621 c.c., gli enunciati valutatiti continuerebbero a costituire false comunicazioni qualora si pongano in contrasto con “criteri di valutazione normativamente determinati ovvero tecnicamente indiscussi”.
Facendo poi riferimento al canone ermeneutico di cui all’art. 12 delle preleggi, la pronuncia in esame deduceva che il noto inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” rappresenterebbe semplicemente una proposizione subordinata esplicativa, la cui avvenuta soppressione non ridurrebbe il novero delle condotte punibili. Quanto, invece, all’espressione “fatti materiali rilevanti”, starebbe a significare che l’errata indicazione o la colpevole omissione degli stessi è punibile soltanto laddove riguardi dati essenziali ai fini informativi, ossia quei dati necessari per garantire la “rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio” (art. 2423 c.c.) senza, quindi, che l’espressione medesima rappresenti un impedimento alla punibilità delle condotte in cui la falsa attestazione riguardi le mere valutazioni.
Ciò che conta, pertanto, sarebbe esclusivamente l’idoneità del dato falsamente esposto ad indurre concretamente in errore il lettore del documento, a prescindere se la falsità riguardi dati realmente esistenti o oggetto di valutazioni.
Oltretutto, la sentenza de qua prendeva atto di come l’intervento legislativo del 2015, recante “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, abbia avuto principalmente la finalità di contrastare il fenomeno corruttivo, che spesso trova il proprio sostentamento proprio nel falso in bilancio attraverso il quale si formano i “fondi neri”, con la conseguenza che affermare la non punibilità della fattispecie valutativa significherebbe frustrare le finalità stesse della legge n. 69/2015, in quanto risulterebbero inspiegabilmente legittime condotte che pure hanno l’obiettivo di alimentare la corruzione.
A tale pronuncia si uniformava la successiva sentenza n. 12793/2016, che aggiungeva il seguente principio: “negare la possibilità che il falso possa realizzarsi mediante valutazioni significa negare lo stesso veicolo con il quale si realizza il falso, posto che il bilancio si struttura di per sè necessariamente anche in un procedimento valutativo, i cui criteri sono indicati dalla legge, come chiaramente evincibile dal disposto di cui all’art. 2426 c.c.”.
Come già detto, la questione veniva rimessa alle Sezioni Unite, chiamate a rispondere al seguente quesito: “se la modifica con cui la L. 27 maggio 2015, n. 69, art. 9, che ha eliminato, nell’art. 2621 c.c., e nell’art. 2622 c.c., (limitatamente alla ipotesi commissiva), l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni”, abbia determinato, o non, un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie di false comunicazioni sociali”.
Il Supremo Collegio ha preliminarmente chiarito come le succitate modifiche rientrino nella complessiva riforma del reato di falso in bilancio, introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, il cui fine ultimo è quello di ripristinare il principio della “trasparenza societaria”, attraverso la rideterminazione della condotta punibile e dell’elemento psicologico: è stata introdotta un’unica fattispecie “generale” delittuosa di pericolo per le società non quotate (art. 2621 c.c.), nonché un’ipotesi “speciale” (sempre delittuosa), concernente le false comunicazioni sociali delle società quotate, punita più severamente (art. 2622 c.c.); vengono poi previsti un’ipotesi “minore” ed un caso di irrilevanza penale (artt. 2621 bis e 2621 ter c.c.); infine, è stata ripristinata la procedibilità d’ufficio (salvo che per le falsità minori), sono state eliminate le “soglie di rilevanza” e, a livello sanzionatorio, c’è stato un generale inasprimento (applicabilità di misure cautelari – coercitive ed interdittive – ed adottabilità di mezzi di ricerca della prova quali le intercettazioni telefoniche e ambientali).
Con riferimento alla nuova versione dell’art. 2621 c.c., le SS.UU. hanno pertanto affermato che “ratio della norma è – riconoscibilmente – la tutela tanto della veridicità, quanto della completezza (che, d’altronde, della veridicità costituisce un presupposto) dell’informazione societaria, sempre avendo come referente finale le potenziali ripercussioni negative delle falsità sulle sfere patrimoniali della società, dei soci, dei creditori e del pubblico”.
La sentenza in esame si è poi concentrata sulla corretta applicazione del metodo ermeneutico, ritenendo eccessivo il peso attribuito dalle pronunce “abrogazioniste” al dato testuale della norma: “va subito detto che eccessiva appare l’enfatizzazione di tale strumento ermeneutico, atteso che l’interpretazione letterale altro non è che un (indispensabile) “passaggio” funzionale verso la completa ed esaustiva intelligenza del comando legislativo […] non può certo negarsi che proprio l’intenzione del legislatore deve essere “estratta” dall’involucro verbale (“le parole”), attraverso il quale essa è resa nota ai destinatari e all’interprete. Che poi detta intenzione non si identifichi con quella dell’Organo o dell’Ufficio che ha predisposto il testo, ma vada ricercata nella volontà statuale, finalisticamente intesa) è fuor di dubbio[…]Nessuna norma può essere presa in considerazione isolatamente, ma va valutata come componente di un “insieme”, tendenzialmente unitario e le cui “parti” siano reciprocamente coerenti”.
Le SS.UU., al fine di dirimere i dubbi interpretativi, hanno, quindi, preferito dare un’interpretazione sistematica (piuttosto che meramente letterale) dell’art. 2621 c.c. , collocandoloall’interno della normativa penale posta a tutela della trasparenza societaria.
Ne è emerso che l’aspetto “valutativo”, seppur ancorato a criteri predeterminati per legge o per consuetudine, costituisce parte integrante del bilancio.
Ed invero, il codice civile (artt. da 2423 a 2427) unitamente alle direttive europee ed alla dottrina elaborata dai soggetti certificatori (OIC per l’Italia ed IFRS a livello internazionale), oltre ad indicare il contenuto del bilancio ed a dettarne i criteri di redazione, impone altresì i relativi canoni di valutazione.
Ne consegue che “il bilancio, in tutte le sue componenti (stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario, nota integrativa), è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo; un documento in cui confluiscono dati certi (es. il costo di acquisto di un bene), dati stimati (es. il prezzo di mercato di una merce) e dati congetturali (es. le quote di ammortamento) […] Il redattore di tale documento, a sua volta, non può non operare valutazioni. Si tratta peraltro di valutazioni “guidate” dai suddetti criteri. Vale a dire che egli necessariamente deve effettuare una stima ponderale delle singole componenti del bilancio, attribuendo – alla fine un valore in denaro a ciascuna di esse […] In sintesi: tutta la normativa civilistica presuppone e/o prescrive il momento valutativo nella redazione del bilancio, anzi ne detta (in gran parte) i criteri, delineando un vero e proprio metodo convenzionale di valutazione. Basti riflettere sulla esistenza di voci quali “ammortamenti”, “svalutazioni”, “crediti”, “partecipazioni”, “costi di sviluppo” ecc.[…]Se dunque la nota integrativa rappresenta la chiave di lettura del bilancio e la esplicitazione dei criteri (e della eventuale deroga a tali criteri) di redazione dello stesso, non può esservi alcun dubbio sulla natura prevalentemente (e quasi esclusivamente) valutativa del predetto documento contabile.E dunque, “sterilizzare” il bilancio con riferimento al suo contenuto valutativo significherebbe negarne la funzione e stravolgerne la natura”.
Quanto poi ai requisiti della “materialità” e della “rilevanza” (ormai indispensabili per perfezionamento della condotta tipica), le SS.UU. hanno respinto la tesi secondo la quale i requisiti medesimi sarebbero antitetici al concetto di “valutazione”, in quanto l’attività di redazione del bilancio si sostanzia proprio nella valutazione tecnica di “fatti materiali rilevanti”, al fine di fornire la corretta rappresentazione dei dati aziendali: “appare evidente la fallacia della opzione ermeneutica che intende contrapporre “i fatti materiali”, da esporsi in bilancio, alle valutazioni, che pure nel bilancio compaiono; e ciò per l’ottima ragione che un bilancio non contiene “fatti”, ma “il racconto” di tali fatti. Vale a dire: un fatto, per quanto “materiale”, deve comunque, per trovare collocazione in un bilancio, essere “raccontato” in unità monetarie e, dunque, valutato (o se si vuole apprezzato) […] La rilevanza altro non è che la pericolosità conseguente alla falsificazione; il che suggella, se pur ce ne fosse bisogno, la natura, appunto di reato di pericolo (concreto) delle “nuove” false comunicazioni sociali”.
Ovviamente la sentenza in esame ha più volte ribadito come le valutazioni del redattore del bilancio non possano essere arbitrarie, dovendo viceversa risultare conformi ai dettami legali e tecnici; e proprio dall’esistenza di vincoli predeterminati ne consegue la sindacabilità delle valutazioni da parte del Giudice e, conseguentemente, l’idoneità potenziale delle stesse a costituire, nei casi previsti dal nuovo art. 2621 c.c., l’oggetto della condotta del reato di false comunicazioni sociali: “in bilancio vanno certamente esposti tutti quei “fatti” passibili di “traduzione” in termini contabili e monetari e, dunque, gli elementi di composizione del patrimonio aziendale, come valutati dal redattore del bilancio secondo i parametri – legali e scientifici – che lo stesso deve rispettare […] A ben vedere, insomma, l’atto valutativo comporta necessariamente un apprezzamento discrezionale del valutatore, ma si tratta – nel caso dei bilanci, non meno che in quello della materia urbanistica – di una discrezionalità tecnica. Ebbene, le scienze contabilistiche appartengono senz’altro al novero delle scienze a ridotto margine di opinabilità; pertanto la “valutazione” dei fatti oggetto di falso investe la loro “materialità”. Ciò senza trascurare il fatto che gran parte dei parametri valutativi sono stabiliti per legge. Ne consegue che la redazione del bilancio è certamente attività sindacabile anche con riferimento al suo momento valutativo; e ciò appunto in quanto tali valutazioni non sono “libere”, ma vincolate normativamente e/o tecnicamente”.
Ed a conferma della circostanza che i “fatti materiali” possono pacificamente essere oggetto di “valutazioni” in sede di redazione del bilancio, le SS.UU. hanno anche citato il già menzionato reato di cui all’art. 2638 c.c., la cui condotta prevede ancora l’esposizione di “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorchè oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria ecc.”.
Del resto, la stessa normativa fiscale (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 7, comma 2) prevede, relativamente ai reati di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e di dichiarazione infedele, la rilevanza penale delle valutazioni che differiscano di oltre il 10 per cento rispetto a quelle corrette.
Ed in ogni caso, le SS.UU. hanno constatato come le conseguenze concrete dell’accoglimento della tesi abrogazionista sarebbero certamente incoerenti con l’intero sistema sanzionatorio dei reati societari:
“se si accedesse alla tesi della non punibilità del falso valutativo, si sarebbe in pratica al cospetto di una interpretatio abrogans del delitto di false comunicazioni sociali e il corpus normativo denominato “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio” finirebbe per presentare una significativa falla nella sua trama costitutiva, prestandosi a una lettura depotenziata proprio nella parte che dovrebbe essere una delle più qualificanti: quella della trasparenza aziendale, quale strumento di contrasto alla economia sommersa e all’accumulo di fondi occulti, destinati non raramente ad attività corruttive”.
In ragione delle succitate argomentazioni, la Suprema Corte penale a Sezioni Unite si è quindi pronunciata in senso favorevole al permanere della rilevanza penale del cd. falso valutativo, ritenendo che il requisito indispensabile ai fini del perfezionamento della fattispecie generale di false comunicazioni sociali, una volta venute meno le soglie di punibilità, sia l’essenzialità dei dati informativi falsamente esposti in bilancio (o ingiustificatamente omessi), cioè la concreta idoneità dei medesimi ad ingannare i destinatari, risultando viceversa indifferente il fatto che la falsità riguardi l’esposizione di beni o la valutazione degli stessi: “Ed è ovvio, in base a ciò che si è premesso, che tale potenzialità ingannatoria ben può derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure è presente nel patrimonio sociale”.
I dubbi sulla presunta abrogazione parziale del reato di false comunicazioni sociali (con riferimento alla fattispecie del falso in bilancio valutativo) a seguito delle modifiche apportate all’art. 2621 c.c. dalla L. n. 69 del 2015 sono, pertanto, definitivamente superati alla luce del seguente principio di diritto: “Sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di valutazione, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”.Come si è detto i principi dettati dalla recente sentenza delle SS.UU riguardano anche i bilanci delle Cooperative (sia SPA che SRL), la cui redazione non si sottrae ai criteri valutativi delle poste contabili, dirette a determinare l’affidamento dei soci, dei terzi e del pubblico in generale.
Nelle Cooperative edilizie, ad esempio, possono rilevare le eventuali variazioni del costo delle opere in corso di esecuzione, effettuate dagli amministratori sulla base della previsione dell’aumento del costo di mercato degli immobili, con il reale intento di mascherare situazioni di insolvenza ovvero frodare i terzi creditori o gli stessi soci.
Ancora a titolo esemplificativo, nelle Cooperative di produzione e lavoro, possono rilevare le valutazioni dei crediti dei soci lavoratori, esposti in misura sottostimata rispetto alla reale situazione, ancorché non ancora definitivamente accertata dal Giudice del Lavoro.
Anche in tal caso, ai fini sanzionatori penali, deve permanere il dolo specifico degli amministratori, diretto al nascondimento della perdita sociale ovvero di pregresse distrazioni finanziarie, poste in essere per eludere l’obbligo di retribuire i soci lavoratori.
Sempre in via esemplificativa, nelle Cooperative sociali, possono rilevare le valutazioni poste in essere dagli amministratori in riferimento ai beni ammortizzabili, con l’intento di creare poste attive fittizie, allo scopo di nascondere la reale situazione economica e finanziaria della Società, beneficiaria di contributi pubblici.
Alla luce di quanto precede, si può concludere che le Società Cooperative e tutti i soggetti ad esse riconducibili (amministratori, sindaci, revisori, Uffici di vigilanza pubblica, associazioni etc.) devono recepire i principi enunciati dalle Sezioni Unite, non solo per evitare di incorrere nelle sanzioni penali inflitte nel caso di alterazioni valutative delle poste contabili, ma anche per confermare la trasparenza dell’attività sociale e assicurare il conseguente ottimale raggiungimento dello scopo mutualistico, come tutelato dalla Costituzione.