IL TRATTAMENTO RETRIBUTIVO NEI CONFRONTI DEI SOCI LAVORATORI NON PUO’ ESSERE INFERIORE A QUELLO STABILITO DAL CCNL DI CATEGORIA MAGGIORMENTE RAPPRESENTATIVO
Le pronunce emesse dalla Suprema Corte nei primi mesi del 2019 (nn. 4951 e 7047) confermano l’orientamento restrittivo in merito alla quantificazione del trattamento retributivo da parte della Cooperativa.
Nello specifico, il salario da corrispondere ai soci lavoratori non potrà mai essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo di categoria sottoscritto dalle associazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. E ciò indipendentemente dal CCNL applicato in concreto.
Nel senso che, qualora per la medesima categoria esistano più CCNL, la Cooperativa potrà scegliere quale applicare, ma rimarrà comunque vincolata, per quel che riguarda il trattamento retributivo da corrispondere, a quanto stabilito nel contratto dotato della maggiore rappresentatività.
L’orientamento appena esposto si pone in linea con quanto statuito dalla Corte Costituzionale, la quale nel 2015 si era espressa negli stessi termini, rigettando la questione di legittimità dell’art. 7 D.L. n. 248/2007 convertito in Legge n. 31/2008, sollevata per la presunta violazione del principio di libertà sindacale (sentenza n. 54/2015, oggetto di precedente commento su questa stessa pagina).
Ed è proprio dal noto art. 7 che trae origine l’iter argomentativo delle sentenze in esame.
Attraverso tale norma il Legislatore ha imposto alle Cooperative di corrispondere trattamenti economici complessivi “non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”, così di fatto riconoscendo valore legale alle soglie minime ivi pattuite.
Le soglie si pongono, quindi, come “parametro esterno e indiretto di commisurazione del trattamento economico complessivo ai criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, previsti dall’art. 36 Cost., di cui si impone l’osservanza anche al lavoro dei soci di cooperative”.
L’art. 7 rappresenta, pertanto, l’attuazione del principio costituzionale attraverso lo strumento legislativo, idoneo a garantirne la vincolatività.
Secondo la Suprema Corte, pertanto, l’inderogabilità del trattamento minimo obbligatorio non deriva dall’estensione dell’efficacia erga omnes del CCNL comparativamente più rappresentativo, bensì dall’utilizzazione “dello stesso quale parametro esterno, con effetti vincolanti”.
Sul punto, la Cooperativa si era difesa lamentando di essere stata, in tal modo, assoggettava ad un CCNL di categoria (quello, appunto, più rappresentativo), cui in realtà non era vincolata, poiché al rapporto di lavoro con i soci risultava applicato un altro CCNL della stessa categoria.
Inoltre, sempre secondo la Cooperativa, il solo fatto che il CCNL applicato in concreto avesse previsto condizioni economiche meno favorevoli rispetto a quello comparativamente più rappresentativo, non avrebbe configurato di per sé la lesione del principio di cui all’art. 36 della Costituzione.
La Corte di Cassazione ha rigettato le superiori eccezioni, rimarcando che il livello retributivo minimo in grado di rispettare i requisiti di proporzionalità e sufficienza del noto art. 36, è quello concordato dalle associazioni nazionali di parte datoriale e sindacale maggiormente rappresentative.
Ciò in quanto deve presumersi che la più elevata rappresentatività dei sottoscrittori sia indice della capacità di garantire concretamente i principi costituzionali sopra richiamati.
Per tali ragioni, la soglia minima così pattuita diventa il parametro inderogabile ex lege per l’intera categoria.
La Suprema Corte ha altresì ribattuto in merito alla presunta lesione dei principi di libertà e di pluralismo sindacale, chiarendo che la summenzionata inderogabilità non riguarda l’applicazione nella sua interezza del CCNL comparativamente più rappresentativo, bensì esclusivamente delle soglie retributive minime ivi contenute, come complessivamente quantificate (ossia, precisa la stessa Corte, al lordo di tutte le voci retributive).
In concreto, il risultato delle tesi esposte dalla Cassazione è indubbiamente quello di arginare il rischio di una competizione salariale al ribasso tra contratti collettivi della medesima categoria (alcuni dei quali potrebbero essere sottoscritti da associazioni di dubbia rappresentatività, al solo scopo potenziale di ridurre il trattamento retributivo applicabile ai soci lavoratori).
La forza di legge del succitato art. 7 raggiunge tale obiettivo, imponendo di fatto il salario minimo di categoria, la cui quantificazione, affidata alla contrattazione tra le associazioni maggiormente rappresentative sul territorio nazionale, ha carattere vincolante a prescindere da quale CCNL venga applicato al rapporto di lavoro.
Nemmeno attraverso il Regolamento interno la Cooperativa potrebbe derogare in peius al trattamento minimo, dal momento che lo stesso Regolamento deve rinviare a quanto previsto in materia dalla contrattazione collettiva nazionale, come dispone espressamente l’art. 6 della Legge n. 142/2001.
Anche l’eventuale Regolamento interno della Cooperativa dovrà, quindi, soggiacere, per quanto riguarda il minimo salariale applicabile, alle previsioni del CCNL comparativamente più rappresentativo.